Artist from Madagascar
“Le fantasme dont nous parlions pointe cependant cette verité: le désir humain, ignorant de l’ultime objet qui le cause, le rencontre par déplacement ... Tout le monde cependant ne se trouve pas à cette place où un objet le constitue comme non-manquant ... dans une pratique source de cette jouissance où le désir s’ éteint ...” (Alain Delrieu, 1988)
"Non far rumore, non parlare: i sogni dello sguardo, del cuore, della mente stanno per esplorare una foresta." (Jean- Joseph Rabearivelo).
Ci sono poeti e artisti talmente radicati nei luoghi da cui provengono da esserne essi stessi il riflesso: luce, suono, colore, profumi e tenerezza dell’aria.
Alcuni sembrano “dipinti dai luoghi”, come se la natura, fra i suoi impulsi materni, coltivasse anche quello di colorare le anime di chi la abita, di plasmarle in segreto, di scaldarle nel suo grembo, di rispecchiarsi in esse.
Un imprinting luminoso e solenne, quando i sensi dell’artista sono così tesi da rendere urgente l’interscambio fra le proprie emozioni e l’ambiente da cui si è lasciato permeare, incantare, segnare.
L’incantesimo diventa ancora più avvolgente quando la vita separa l’artista dai suoi luoghi del cuore, che sono luoghi fantasmatici, tanto potenti perché irraggiungibili: nelle dolci parole di Jacques Lacan ogni essere umano è destinato a percorrere la sua vita mosso da una tensione ineludibile fra realtà e sogno (désir). La proiezione di se stessi al di là del reale, nelle mosse dettate dispoticamente dall’Inconscio, genera un vissuto di tensione, che a un tempo è sofferenza (la manque), desiderio (désir) e infine progetto di vita, traiettoria esistenziale (le trajet).
Caline Dalberto si trova proprio qui, o meglio l’osservatore trova l’insondabile inconscio dell’autrice nella sua materica produzione artistica.
Che è astrattismo non surrealista, agganciato alla terra di Madagascar, alla storia di vita e nel contempo lanciato in una coazione: riappropriarsene, tentando –inutilmente- di raggiungere quel luogo ove trovare la pacificazione.
Una tela porta il titolo “L’inutile azzurro”.
Nel suo lavoro la memoria si fa energia, slancio vitale, gesto sincopato, action sauvage. Il Madagascar è l’Eden arcaico, luogo geografico e memoria che si riattualizza, τόπος (tópos) che esige di impressionarci.
Caline Dalberto sembra custodire le tracce di un mistero universale: il suo universo senza tempo ha bisogno di sfociare in trasfigurazioni che in apparenza indulgono alla quiete.
Ma sono scintille, esplosioni, magma che non conosce spegnimenti, violenza dei monsoni, grandiosità degli oceani e degli stormi di migratori in volo. Savana avvolgente, dove la violenza del sole tropicale squarcia un aperçu del cielo, altro protagonista costante.
Di fragile e sentimentale la sua pittura non ha nulla.
Come il Madagascar in cui è venuta – letteralmente – alla luce, Caline è un mélange di culture. Nomade: "Le popolazioni nomadi sono per definizione pacifiche, perché nella loro essenza di vita hanno necessità di pozzi d’acqua, di ripari, di scambi con i popoli stanziali le cui terre attraversano." (Bruce Chatwin).
L’esotismo di Caline Dalberto appartiene più al nostro sguardo che al suo. Per lei, nata a Diégo Suarez, quei colori e quelle vibrazioni sono una radice profondissima e autentica. E la sua Africa non è un cliché monolitico, ma una delle tante Afriche vere e immaginate:
"Africa non africana, il Madagascar."
C’è dunque un bagliore polemico nell’impeto con cui Caline satura di colore le sue stupefacenti inquietudini? Un “ritorno all’innocenza” carico di vigore e di pena? Quanto amore, quanta rabbia si nascondono nei suoi cieli en rouge, nelle vertigini d’oro, nei tramonti ardenti, nei tourbillons, nei feux follets, nelle tempeste di blu, nelle fiammate brunastre, nelle esplosioni di verde, nei cieli caduti?
Quanto concilianti, o quanto animosi e ruggenti, sono i suoi segni improvvisi, gli scatti fulminei, le strisciate, le curve, le nuvole, le simulazioni vertiginose dei venti e dei raggi solari?
Sono placidi o apocalittici gli ammassi stellari, gli incontri e gli scontri cromatici, gli addensamenti sanguigni sul Pain de Sucre, gli aloni intorno al profilo austero della montagna, le ombre, le silhouettes che si stagliano nette su sfondi vorticosi?
Non solo la montagna, ma anche il cielo che la circonda e la sovrasta è oggetto d’indagine.
Il cielo di Caline è un agglomerato di masse in movimento, di addensamenti materici che sembrano formati dallo scioglimento della roccia e che, a ben guardarli, lasciano percepire –appena accennate – enigmatiche presenze antropomorfe.
Il pensiero va allo spirito dei morti, culto incancellabile e onnipresente nelle culture più resistenti alle alienazioni della modernità.
In un’immagine sola si colgono, al volo, tutte le tensioni poetiche – forti, appassionate, contrastanti – di un’autrice che ha fatto sue le più elevate aspirazioni dell’umanità; ma che, con sguardo lucido e laicissimo, è perfettamente consapevole del fatto che le utopie, pur necessarie, producono conflitti, incomprensioni, disastri
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Flavio Colombo, 2014
Foto dell’artista: Tommaso Basili, 2011
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